Netflix, Neri Marcorè ed Elio Germano guidano la rivolta degli attori italiani: i motivi della ribellione clamorosa
La cooperativa Artisti 7607, che tutela i lavoratori del cinema, ha fatto causa al colosso dello streaming. Si chiedono compensi dignitosi e adeguati ai ricavi.
È una questione che va risolta. Lo hanno capito gli attori e doppiatori italiani, che hanno deciso, tramite la società Artisti 7607, di fare causa al colosso dello streaming Netflix. Il punto è che i salari garantiti dalla piattaforma americana non sono dignitosi, non rispecchiano il valore degli artisti, ed è una sorta di "remake" all’italiana del recente sciopero USA di attori e sceneggiatori. Tra i firmatari, anche volti notissimi come Neri Marcorè ed Elio Germano. Vediamo allora di seguito tutti i particolari.
La protesta degli attori italiani contro Netflix
Uno tsunami tricolore, si abbatte quest’oggi sul colosso Netflix. Gli attori e doppiatori italiani sono ufficialmente in rivolta. Hanno fatto causa, tramite la cooperativa Artisti 7607 (che tutela i diritti dei lavoratori del cinema), alla piattaforma di streaming più diffusa al mondo. Come? Citando in giudizio la suddetta Netflix presso il Tribunale civile di Roma. Per ottenere, finalmente, un compenso che sia adeguato, secondo quanto stabilito dalla legge.
A parlare in vece degli altri, in primis, è l’attore e comico Neri Marcorè. "Artisti 7607 fa una scelta doverosa", dice Neri su Repubblica, "per difendere la dignità professionale non solo dei nostri artisti ma di tutta la categoria. Non vogliamo subire atteggiamenti ostruzionistici e accettare compensi irrisori da parte delle piattaforme streaming, per le stesse ragioni che hanno motivato il recente sciopero degli attori e sceneggiatori americani. Tutti reclamiamo trasparenza dei dati di sfruttamento delle opere audiovisive e adeguatezza dei compensi".
Lo streaming, si sa, paga poco. Ed è pressoché identica la situazione nel mondo della musica, dove tante cause sono state già intentate contro il comportamento (piuttosto simile) di colossi come Spotify. Ora tocca a Netflix, dunque, e la cosa sembra parecchio seria. Elio Germano, che aderisce anche lui, spiega così la scelta: "Proprio le piattaforme che trattano e sfruttano dati si rifiutano, grazie al loro strapotere economico e contrattuale, di fornirci i dati previsti dalla normativa e di corrispondere conseguentemente i compensi agli artisti. E parliamo di multinazionali i cui ricavi vengono esclusivamente dallo sfruttamento di opere audiovisive".
E al coro si aggiunge pure Michele Riondino, deciso e inflessibile come i colleghi: "La Direttiva Copyright ha chiarito che le remunerazioni degli artisti devono essere ‘adeguate e proporzionate’ ai ricavi. Invece ci troviamo davanti a un sistema in cui le piattaforme, senza fornire tutte le informazioni previste dalla legge, chiudono accordi al ribasso e poi cercano di imporre le stesse cifre a tutto il mercato, così da tenere i livelli dei compensi degli artisti sempre molto bassi". La pacchia potrebbe essere finita, insomma. E male che vada ci saranno passi in avanti. Perché le parole degli attori italiani, ci scommettiamo, questa volta non cadranno nel vuoto.